«Pubblico» e «privato». Che cosa ne direbbe Giacomo Leopardi (1980)

Intervista di Filippo Bettini, «l’Unità», 12 dicembre 1980, poi raccolta in W. Binni, La disperata tensione. Scritti politici (1934-1997), a cura di Lanfranco Binni, Firenze, Il Ponte editore, 2011.

«PUBBLICO» E «PRIVATO». CHE COSA NE DIREBBE GIACOMO LEOPARDI

È uscita quest’anno la ristampa del famoso saggio di Cesare Luporini, Leopardi progressivo, apparso per la prima volta nel ’47. Ne parliamo con Walter Binni, autore di un volume pressoché coevo sulla Nuova poetica leopardiana che, col saggio di Luporini e in una direzione, direi, convergente e solidale, contribuí a segnare una radicale inversione di tendenza nell’analisi e nell’interpretazione dell’opera del poeta. Come giudica oggi quell’esperienza critica?

Per precisione di memoria storica, debbo dire che già intorno al ’34-35 si era configurato un primo abbozzo di interpretazione leopardiana di senso antiidealistico e antiermetico. Ma è certo che il ’47 segna la svolta decisiva. Era il momento in cui sia io che Luporini avevamo superato la comune appartenenza alla linea «liberalsocialista» e le stesse ideologie esistenzialistiche o storicistico-idealistiche di sinistra. E Leopardi ci appariva tanto piú sconvolgente e stimolante con la forza del suo pensiero e della sua poesia, quanto piú oppositivo rispetto all’immagine mistificata che di lui avevano fornito intellettuali e critici legati ai miti puristici e catartici della poesia, cosí cari alla cultura borghese.

Tuttavia tra i due saggi vi erano anche apprezzabili differenze d’angolazione metodologica e tematica.

Certamente. Il saggio di Luporini delineava la figura del grande moralista (dunque, di un pensatore, non sistematico, ma conoscitivo-pragmatico) in lotta profonda con il pensiero della Restaurazione e con l’ideologia «liberal-moderata» contemporanea, promossa dalla delusione storica della sconfitta della rivoluzione francese. La figura, dunque, di un uomo che giunse, attraverso un sofferto percorso, ad un materialismo antiprovvidenzialistico, ateo e politicamente democratico sull’«onda lunga» di una problematica la quale, scavalcando le istanze risorgimentali, coglieva alla radice dei nostri stessi problemi. Io – dal versante di una prospettiva piú critico-letteraria e alla luce della mia nozione di poetica come commutazione in poesia di problemi etici-critici-filosofici e di un’esperienza vissuta – presentavo l’immagine di un ultimo Leopardi che si fa poeta eroico della verità materialistica e atea, espressa nelle forme rivoluzionarie di un linguaggio perentorio, aggressivo, di «musica senza canto», e improntata ad una lotta senza tregua con la Natura e la società borghese in ascesa: un messaggio che dirompe nella Ginestra.

Alla luce degli studi successivi, che si posero in asse con la vostra indagine sviluppandola e ampliandola (basti pensare ai contributi di Timpanaro, Biral, Berardi, Savarese, Badaloni, Sanguineti) registriamo, negli ultimi anni, una progressiva crescita d’interesse per Leopardi e non solo sul piano specifico della critica letteraria. Qual è, secondo lei, la ragione di fondo della straordinaria attualità di Leopardi?

Credo che Leopardi appaia oggi, sempre piú chiaramente, non solo come un eccezionale poeta, il piú grande degli ultimi secoli, ma anche, e proprio in forza della sua poesia «moltiplicatrice», come un grande «intellettuale», come il supremo contestatore di ogni visione consolatoria e religiosa e di ogni sistema provvidenzialistico o finalistico: si pensi soltanto alla sorprendente consonanza con le conclusioni di Le hazard et la nécessité di Jacques Monod. Leopardi è, appunto, il poeta e l’intellettuale che, con maggiore forza e acutezza, ha individuato gli aspetti negativi e contraddittorî nella nascente società e cultura borghese e, contemporaneamente, di ogni costruzione alternativa che non sia fondata sulla verità intera («nulla al ver detraendo» come egli dice nella Ginestra), l’unica veramente rivoluzionaria. E proprio in questa formidabile carica anticipatoria va riconosciuta una parte essenziale della sua «modernità».

Una carica anticipatoria che, forse, investe anche alcuni nodi importanti di quella dialettica tra «pubblico» e «privato» che si è affacciata con prepotenza sulla scena della vita politica e sociale.

Infatti. Chiunque abbia presenti i pericoli mortali che incombono sul nostro presente-futuro (dall’uso dell’energia nucleare all’inquinamento ecologico, dall’interessata massificazione consumistica della società tardo-capitalistica alla stessa difficoltà di nuove società che per molti aspetti riproducono gli errori di quella borghese) ben avverte come Leopardi comandi a tutti noi uno sforzo continuo di rifondazione della stessa nozione e prassi sociale e politica che, secondo le parole di Marx, dovrebbe farci «liberi ed eguali». Ma senza certezza e garanzia di successo, senza esiti di un’impossibile felicità e sempre nella lucida consapevolezza dei limiti e delle contraddizioni dell’individuo: delle stesse realtà della malattia, della morte, della vecchiaia, della caducità della terra e del cosmo.

Tornando al discorso sulla critica leopardiana, è stata tentata e proposta, negli ultimi anni da parte di alcuni settori della critica marxista, un’interpretazione di Leopardi in chiave esclusivamente «sociologica». Qual è il suo giudizio al riguardo?

Non ne contesto a priori la possibilità. Ma mi sembra che le interpretazioni «sociologiche» finora offerte dalla critica finiscano per perdere di vista proprio lo spessore storico della poesia leopardiana. Non si può rivolgere a Leopardi l’accusa di essere un intellettuale conservatore e déraciné, insomma, se vogliamo usare una parola, «disorganico». Perché, in una prospettiva storicamente esatta, era sí «disorganico» rispetto al proprio tempo, ma «organico» ai moti piú profondi e piú lunghi della storia.

Nel suo piú recente saggio dedicato a Leopardi, La protesta di Leopardi, lei afferma che Leopardi è sempre stato e si è venuto, via via nel tempo, sempre piú chiaramente delineando come il poeta della sua prospettiva politica, intellettuale, morale e artistica, insomma come il principale modello di considerazione della sua metodologia «storico-materialistica».

Sí, certo. Leopardi infatti campeggia, per frequenza di citazioni esplicite e di sollecitazioni piú nascoste, nel mio volume metodologico del ’63 [Poetica, critica e storia letteraria, n.d.r.] ed appoggia molte delle mie piú centrali istanze. Basti ricordare, almeno, la lotta contro il «formalismo» e contro il «contenutismo», collegata al senso della sua poesia, «impura» e insieme «autentica», e a precisi pensieri dello Zibaldone circa l’essenzialità dello stile (realmente valido solo se adibito alle «cose»), o l’appoggio della tensione poetica alle grandi pagine del saggio zibaldonesco su Omero e la poesia epica, in cui si afferma che il «vero effetto poetico» non lascia l’animo «in calma e in riposo», ma che sempre «lo turba e lo sommuove». Anche per il passo dove assumo che la vera e grande poesia non è ripetitiva illustrazione della storia e non è neppure luce o miracolo partenogenetico, ma è forza autentica e non separata che nasce e opera dentro la storia e produce, a suo modo, storia piú profonda della cronaca e del flusso degli avvenimenti contemporanei – anche per quel passo, centrale nella mia metodologia, la grande poesia leopardiana, nata dall’attrito totale con la storia del suo tempo e di quello passato, moltiplicatrice vertiginosa negli effetti poetici del suo messaggio, resta modello fondamentale e supremo.